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La Morte di Empedocle, l’ultimo libro di poesie di Franco Di Carlo

Il genius loci nella poesia di Franco Di Carlo. Commento di Cinzia Della Ciana in occasione della presentazione del libro La Morte di Empedocle presso l’Enoteca Letteraria in Roma

Non si può capire la poesia di questa nuova silloge di Franco Di Carlo “La morte di Empedocle” (Edizioni Divinafollia, 2019) se non ci poniamo una domanda: da dove viene, dove è nato, dove vive ed è vissuto l’autore? Franco Di Carlo ha il privilegio di esser nato e di esser rimasto sempre a vivere a Genzano di Roma, un borgo incantevole che fa parte dell’area dei Castelli Romani. Cercherò di proiettarvi la vista di quei suoi luoghi al fine di trasportarvi in quei siti così suggestivi e carichi di peculiarità. Genzano si affaccia sul lago di Nemi e con la stessa Nemi, borgo fratello, fa da castone in corona sul cratere del lago. Un lago vulcanico che è un cono rovesciato e le cui superfici sono ricoperte di boschi e di arbusti mediterranei, colorate di verde intenso, quasi viscerale, un verde cupo palude che la sera vira al rosso amaranto. Un lago vulcanico, dunque, le cui acque di giorno sono atre, intrasparenti, oscure nel senso che non consentono di scorgere cosa vi sia sotto e tu quasi meccanico ti senti attratto e ti poni interrogativi su cosa nascondano. E la storia impera perché questo era il luogo di villeggiatura preferito dall’Imperatore Caligola che su quello specchio fece adagiare appositamente due preziosissime navi, come palazzi galleggianti per i suoi giochi e riti, poi affondate dagli oppositori e per secoli custodite dalle acque del lago. Acque che – mutuando la poesia di Ungaretti “Lago Luna Alba Notte” in “Sentimento del tempo” – al crepuscolo diventano quella “conca lucente/che trasporti alla foce del sole” e con la luna fanno tornare “colma di riflessi l’anima” e “acre la notte”. Una ripa scoscesa che come “impallidito livore rovina” (sempre mutuando la poesia ungarettiana), un imbuto che rimanda alla discesa ai regni ultraterreni e che è intersecato da quello specchio liquido giammai occhio, ma ombelico misterico che ti risucchia. Sì perché c’è un’aura di innegabile mistero che ti pervade quando arrivi sopra al lago di Nemi e cammini in una sorta di abbraccio da Genzano a Nemi. Due centri antichi che nascondono le loro tracce nella storia del loro nome, per entrambi legato a divinità lunari. Il toponimo Genzano secondo alcuni va riferita a Cynthia – termine usato per indicare la Luna (di cui Artemide era la divinità nella mitologia greca) – mentre Nemi da Nemus (letteralmente bosco) denominazione, spesso accompagnata da aggettivi o complementi di specificazione (“Nemus Dianae”,”Nemus Artemisium”, “Cynthiae fanum”), con cui era conosciuto il tempio di Diana che sorgeva sulle sponde del lago. E qui si ritorna al paesaggio. Alla divinità dei boschi e della caccia e della fertilità, era consacrato l’intero bosco circostante il lago, e tale culto è ancora oggi vivo se si pensa che adepti accendono candele su altari fra i resti dello scavo che mostra i fasti dell’antico tempio, gli imponenti nicchioni e i poderosi portici. Qui avverti ancora presenze divine, dietro i “fragili cespugli” di mirto avverti che si nasconde un fauno e ti pare di udire “celati bisbigli”, dietro le felci spunta una ninfa e passi di uomini e donne pervasi da danze e riti. Qui il bosco è selva e i lecci, le querce, l’alloro infatti pulsano per iniziati ai riti e ti pervade un senso di sacralità. Improvvisamente non sei in mezzo alla Natura, ma sei in mezzo alla storia che è “sacra”, ai miti, a ciò che non si rivela, all’esoterico inteso come sapere interno, come quegli insegnamenti che nell’antichità greca Pitagora e Aristotele impartivano ai soli discepoli atti a comprendere i segreti della natura. Sei in un universo dove avverti la correlazione dei quattro elementi fondamentali (aria, acqua, fuoco, terra) e la mescolanza di origine, nascita e morte. E non solo, perché qui l’aria punge la sera e dall’alto di Nemi godi il privilegio raro di tramonti che dal lago volano al mare in fronte. Oltre il cratere, infatti, si stende una fascia di piana che separa l’ombelico dalla vastità del mare che tutto abbacina e tutto risolve. Ecco in questi luoghi è nato, si è formato e ha scelto di vivere il Poeta Franco di Carlo, un poeta filosofo che è impregnato dal genius loci. In lui, come fu per Ungaretti all’epoca del soggiorno a Marino, il territorio si trasforma in paesaggio carico di suggestioni mitopoietiche, dove i miti, le leggende, i misteri, la storia, non si riducono a sterili forme retoriche, bensì a vitali archetipi, dei quali il poeta si nutre e con essi si fonde in una realtà primigenia. Diventa ovvio che egli scelga come titolo di questa raccolta emblematicamente Empedocle, un personaggio che non si può contenere nelle semplici qualifiche di filosofo, ingegnere, scienziato perché le trascende e come sosteneva Hegel è “taumaturgo e mago”, uno sciamano conoscitore delle erbe che fanno impazzire, di quelle che fanno guarire e scongiurano le epidemie. Un vate che, dopo aver invano provato a realizzare nella società fusione di spirito e natura, ricerca una conciliazione attraverso il martirio da cui è la via del ritorno all’indistinto tutto cui si appartiene, e che la poesia presagisce. Un filosofo che ha posto a fondamento di tutte le cose proprio i quattro elementi/radici e che sentiva, guarda caso, che l’ umanità del proprio tempo viveva in un ciclo dominato dall’Odio, un odio disgregante che avrebbe presto condotto a una frammentazione cruenta, un vate che non attende la catastrofe e secondo l’antica leggenda tramandata da Eraclide, e messa in versi da Holderlin, sale sulle pendici dell’Etna e si precipita, guarda caso, nel rutilante cratere vulcanico per ricongiungersi con gli elementi. Ecco allora che le poesie di Franco Di Carlo portano titoli come “Annuncio”, “Nostalgia della morte”, “Ordine universale”, “Profezia”, “Carmen lustrale”, “Tragedia”, “Dedalus”, “Il ramo d’oro”. Così cantano di mitopoietica i suoi versi: “Molto presto, di mattina, un giorno entrai / nel bosco di latte, nascosti ingressi / tra le foglie, della sibilla, via vai continui, / orribili lamenti. Accessi ardenti e bui antri, / segreti incerti respiri di platonici cavalli alati / sospiri feroci, aperti al vento d’ottobre” (in “Profezia”). Qui ci troviamo immersi nel paesaggio descritto, sapientemente pennellato da quel tremore misterico e sacrale del bosco che chiama “bosco di latte” mutuando l’espressione del poeta Dylan Thomas. E ancora ne “Il ramo d’oro”: “… nel lago e danzano panici balli, / alchemici trastulli ansimando mitici scandali / e magie negli abissi algosi. / Antico rituale di Eros / tra foschi boschi di rami d’oro, / ma dove è finita la luce? / …tramonta la luna. / Sola attende Diana tremante / l’alba lustrale a levante” . Emergono le ninfe, le danze, i riti, i boschi, la luce e la mancanza della luce, Diana, i momenti del giorno che segnano il passaggio, la purificazione, il mistero, l’esoterismo tutto sapientemente orchestrato. E dal lago al mare nella corsa liberatoria di “Libertà espressiva”: ” Un galoppo lontano che corre nella pianura / più rapido e forte sull’erba, in trasparenza / sulla riva del mare del vecchio litorale.” E ancora paesaggio che si amplifica in “Fragile Vaga foglia”: “In mezzo al prato amaranto la luna e l’erba intorno. / Al confine del cielo, tra colline valli / e onde e siepi e ombre lontane. / Luce estrema, mesta melodia. / Sulla via degli dei resta ancora, / caduto il raggio diurno a occidente, / viaggio confuso lungo cammino.” La necessarietà dei punti cardinali Occidente e Levante, intesi come simboli dell’inizio e delle fine di un ciclo che ritorna, più che indicatori di bussola perché il viaggio è confuso, il viaggio è cammino fatto di molti passi e passaggi. In “Canto barocco” poi un vorticare di elementi: “Favole omeriche eroico-cavalleresche / storie d’amore di ninfe e pastori / naufragi, ciclopi e mondi creati. / Solitudini metafisiche e orrendo panico, / rive e foreste, campagne e deserti / cerchi cornici gironi e cieli concentrici.” Dove le ninfe rimandano alla Ninfa Egeria, compagna di Numa Pompilio che Diana trasformò in sorgente impietosita del di lei vagar disperato dopo la morte dell’amato. E i cerchi, le cornici, i gironi e i cieli richiamano l’imbuto e la discesa agli inferi degli eroi. E ancora: “I lamenti della luna… canto sacro… profezie di silenzio” inNostalgia della morte” e la “poetica fascinazione” che “fa muovere alberi e monti” in “L’ordine universalee le “volute barocche sapienziali / incentrano le ali del pensiero / verso ideali sacerdotali” in Dedalus”. E poi la luna che non è pallida, ma è luminosa, luce di purificazione, come se si potesse vedere e apprendere solo di notte: “La luce diretta e pura è rara. / Si può vedere solo nella notte, / riflessa nella conoscenza del Sacro / e del Mito dell’illuminazione / mistica e della sua contemplazione” in “La luce della notte”. Ancora maggiormente esplicitata in “Notte spirituale”: “l’anima solitaria scende al tramonto, / nel fiume azzurro tra verdi rami intrecciati. / … Imbruna il bosco distrutto nell’ora crepuscolare. / Quando silenziosi, i dolci violini nel lago stellato, / tacciono i loro lamenti, s’ode soltanto la fresca voce / della luna e il tenue dileguarsi dell’anima invernale / dell’anno spirituale. … Miti ormai dimenticati che raccontano strane leggende / di boschi fiumi laghi celesti e ninfe “. In Carmen Lustrale: ” Il dire muto dell’essere oscuro / vide la luna ansimante e il cratere fumante. / Carmi lustrali offerti a Orfeo / de rerum natura, radici eterne / elementi divini, cosmiche forze”. E questo paesaggio fatto di terra, di aria, di acqua, di fuoco, diventa luogo dell’anima, diventa lo spirito del luogo che penetra nel Poeta e quindi si trasforma in approdo. In “Annuncio”: “Arrivai dunque al traguardo accordato: / rive armoniose del fiume della quiete, / tra luminose radure nel fianco del monte ” e in “Tutto è affidato al silenzio”: “Tra ruscelli lontani, velli d’oro e rossi rivi / non c’è risposta. Tutto è affidato al silenzio, / tra il tempo già dato del vissuto e lo spazio / del desiderio…”. Si eleva, quindi, un inno alla nostalgia del mito della bellezza e dell’armonia, della ricerca della quiete, dove la nostalgia è il sentimento che trasforma la lontananza nel tempo e nello spazio in mito e nasce da un’immensa nostalgia elegiaca per l’Ellade. Allora il cerchio si apre e si ritorna dove già si è: “Quando il profeta parla, il tempo s’apre, / non fa previsioni né pronostici o puri calcoli / di probabilità” (in “Il cerchio aperto”). “Ritornare dove già sono. Questo è il processo / regresso da avviare sulla strada del pensare” (in “La parola dà l’essere”). Nello scorrere di questi versi ritornano i luoghi del Poeta e si svela la sua dimensione di silenzi e presagi. Franco di Carlo è viaggiatore che ritorna dove già è, dove è sempre stato, è il Cantore fatto di poesia, è il novello Omero che afferma il mistero, è il suo nobile pensare, è il costruttore della pietra fiabesca del regno che resta però in lontananza, è colui che in questo processo riesce a riempire il silenzio e affermare il suo dire sgomento, il suo canto nascosto e stupendo. Roma, 11.4.2019
Cinzia Della Ciana

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