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Giorgio Caproni, “Sulla poesia”

In una conferenza tenuta al Teatro Flaiano di Roma, il 6 febbrario del 1982,
sui suoi versi Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia, Giorgio Caproni affronta l’enigma identitario della “poesia” e la sua voce giunge a noi grazie al fatto che un attore presente, Pietro Tordi, era solito registrare dal vivo tutto quanto egli riuscisse a captare durante gli eventi pubblici about poesia. L’editore Italo Svevo ha recuperato il bellissimo intervento di Giorgio Caproni, catalogato dal Fondo Tordi come Cassetta n° 103, curato da Roberto Mosena, e nel volumetto “Giorgio Caproni – Sulla Poesia” riporta per intero l’intervento del Poeta. In esso Caproni pennella la sua visione lucida e intelligente di cosa sia la poesia. Di norma è sottolineato della poetica di questo Autore il passaggio in cui egli ricorda come la sua vocazione fosse ricercare attraverso, la poesia, la sua verità come “verità degli altri” ovvero “verità di tutti”, perché la poesia resta atto di narcisismo finché è confinata nei singoli fatti della propria persona/biografia e solo un inabissamento dentro il sé consente di riportare al giorno “nodi di luce” che non sono solo dell’io, ma di tutta la “tribù”. Vorrei, qui, invece proporre degli estratti del discorso in questione che esaltano il rapporto della poesia con la musica, quella musica di cui Caproni era intriso perché di violino e composizione si era nutrito fin da giovane. Il Poeta riesce con esempi indelebili a spiegare la differenza tra linguaggio poetico e linguaggio di comunicazione. Egli parte dal dire che nel linguaggio di normale comunicazione la parola è un segnale acustico o grafico di un codice convenuto, mentre nella poesia, accanto a tale funzione ne assume un’altra “dove la parola stessa, oltre il senso letterale, diventa matrice di una serie pressoché infinita di significati armonici. Dico armonici nel senso che si dà alla parola nella fisica e nella musica. Potrei dire altri significati: un do in musica genera la sua terza, la sua quinta, la quale a sua volta genera la sua terza, la sua quinta in somma una serie infinita di altri suoni, oltre quello emesso dallo strumento. Una serie di significati armonici dipendente forse dalla sua stessa forma fonica, nonché dai contenuti culturali ch’essa ha in quella determinata lingua e magari dalla posizione che essa occupa nel verso“. E infatti basta fare la versione in prosa d’un qualsiasi verso famoso, mutando l’ordine, che l’incanto sparisce. E per rafforzare questo concetto Caproni ricorre ad un esempio molto “grossolano”, come dice lui. All’ora del rancio in caserma la cornetta emette un suono noto ai “marmittoni” che sanno che “suona il rancio”. Ma se un sergente estroso invece di far suonare la solita cornetta facesse suonare un flauto, magari da Gazzelloni, è vero che il soldato percepirebbe il comunicato pratico però “percepirebbe un altro significato che è il significato musicale. Questa per me è la differenza fondamentale appunto tra il linguaggio di normale comunicazione e il linguaggio poetico“. Insomma si riceverebbe un’emozione in più e” generare emozioni, capaci di tradursi in sentimenti e in idee, magari diversi da quelli del senso letterale, mi sembra appunto la funzione precipua della parola nel linguaggio poetico“. Ma ancora il parallelismo con la musica non finisce qui. A proposito dell’importanza del leggere le poesie ad alta voce e in pubblico che equivale in qualche modo come dico io a “suonarle. “Ascoltare una poesia dalla viva voce dell’autore, dunque, è per me un fatto innegabilmente istruttivo. Aiuta a capirla, anzi a sentirla meglio, perché poi c’è questo fatto che le poesie non tanto vanno capite, quanto sentite… Se l’attore è veramente un lettore, e non recita ma legge, io credo che abbia la stessa importanza che in musica l’interprete. Il testo musicale in sé è inerte. E’ vero che uno che conosce la musica se la legge per conto proprio, però un interprete aggiunge sempre qualcosa…“. E ancora un passo fondamentale per capire cos’è Poesia: non si va a capo a caso, c’è una ragione che regge la fine del verso, una regola che sostiene il rigore dell’architettura : “.. Però questi attori hanno quasi tutti un difetto; non fanno sentire la fine del verso e tanto meno s’ingegnano di abolire, con un’arte veramente diabolica, di abolire la rima. Ora, secondo me, quando è un errore. La rima non è obbligatoria, però quando c’è, quando il poeta mette la rima, ha uno scopo architettonico preciso questa rima. E’ quello che in musica si potrebbe chiamare le consonanza e dissonanze…” . Non resta che chiudere queste “note” con le vere note della citata poesia di Caproni, suonando alcune di quelle sue “Parole”

“Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti
han preso la stessa via
.

Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie. …

E solo
quando sarò così solo
da non aver più nemmeno
me stesso per compagnia,
allora prenderò anch’io la mia
decisione.

Staccherò
dal muro la lanterna,
un’alba, e dirò addio al vuoto.

A passo a passo
Scenderò nel vallone.

Ma anche allora, in nome
di che, e dove
troverò un senso (che altri,
pare, non han trovato),
lasciato questo mio sasso?”

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