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Il colore dell’infinito nella poesia di Adriana Gloria Marigo

Se fosse un colore la poesia di Adriana Gloria Marigo sarebbe l’azzurro, quell'”azzurro teso” cennato nella raccolta Senza il mio nome (Campanotto Editore, 2015) e tante volte invocato nelle sue più varie tonalità nella nuova opera Astro immemore (Prometheus Editore, 2020).

L’azulejo porteghese intriso di fado, il celeste sereno delle robbiane, il blu di Prussia dell’inchiostro, l’indaco del giorno che muore e che nasce, l’azzurro “irriverente” e dilatato dalle nubi “zoomorfe”, stirato e scritto dal vento alto che si calma in brezza (“disgrafie celesti” disegnate dal Mergozzo), “la digressione di tutto il turchino” che si fa “spergiuro del sole”, lo specchio della volta celeste rovesciato sul Lago Maggiore e resta negli occhi della Poeta (“lo sguardo di celestia fitto”) suo “fulcro iemale”.

E’ un colore inafferrabile (“non fa cielo l’azzurro che s’incaglia nel vetro/ sposo di lucenza ninfale”), è gloria e mito, è vibrazione e risonanza, “l’aspergine azzurra”, è ricordo senza memoria, è metafora e sogno. Qualcosa di troppo grande per essere compiutamente pensato, qualcosa che può essere solo pennellato come nei quadri dell’impressionismo o suonato in arie senza tempo.

Kandinsky diceva: “L’azzurro rappresentato musicalmente, è simile a un flauto; il blu scuro somiglia al violoncello e, diventando sempre più cupo, ai suoni meravigliosi del contrabbasso; nella sua forma profonda e solenne il suono del blu è paragonabile ai toni gravi dell’organo”.

E’ come se l’eccitazione e la pace si fossero fusi in una dimensione nuova. Quella del “silenzio” che si fa “luce” che “incorolla”, “emoziona le foglie”, diventa “respiro di spazio”, e allora la sensorialità si inverte e la poesia diventa luogo di sinestesia elevata che, se profondamente intesa, fa percepire tutto il suo calore interiore.

Una luminosità “semplice” nel senso etimologico dell’aggettivo, come recita la poesia La luce più non piega le cadenze, “pura trasparenza” (in Più docile a pura trasparenza) che si mostra nelle acque in “aerea levità ramoscellata”, “tutto coincide nella luce” (nell’omonima lirica), la “luminanza”, la “libera luce” che “vira” in “fascinazione” di alterne stagioni (in La libera luce) e appuntamenti equinoziali.

Mi piace pensare a questa silloge come ad un vero e proprio astro, che nel puzzle del cosmo si ammira con il canocchiale, e più si centra e si concentra l’attenzione di tutti i sensi, e più l’arcano della composizione scansionata e di fine rarità di lemma e di stile si annuncia in armonia, e il misteriale “rammendo” cuce la memoria.

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